Change Management Process – Gli step da seguire per attuare con successo un processo di cambiamento

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“Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare.” (Winston Churchill)

In un precedente articolo abbiamo affrontato la tematica del processo di gestione dei cambiamenti all’interno di un’impresa e la necessità di cambiare ed evolversi per riuscire a stare al passo con i tempi, mantenendo salda la propria presenza sul mercato.

Un’organizzazione è costantemente in evoluzione. Il cambiamento può essere causato dall’avvento di nuove tecnologie, innovazioni  di processo o di prodotto, oppure dal dover riorganizzare i servizi offerti alla clientela; in ogni caso, intervenire attivamente è necessario per la crescita e la redditività aziendale. É dunque fondamentale riuscire a gestire i cambiamenti in modo efficace cercando di ridurre al minimo, nella fase di transizione, l’impatto ”sconvolgente” sul team e sulle attività aziendali.

Step essenziali del change management process

Indipendentemente dalla tipologia di cambiamento perseguito, è necessario:

1. Porsi chiari obiettivi da raggiungere

Un processo di cambiamento non è quasi mai breve e indolore. Avere ben chiaro sin dall’inizio cosa effettivamente vada migliorato, ossia l’obiettivo finale del processo, è fondamentale. Ciò permette infatti di identificare e allocare le risorse, economiche e umane, necessarie al raggiungimento dello scopo.

2. Pianificare il change management process

Una roadmap che traccia il percorso da intraprendere con i vari step del change management fino al processo di cambiamentoraggiungimento dell’obiettivo è essenziale per poter procedere nelle lunghe fasi del percorso. Il processo di cambiamento deve avere degli step chiari e obiettivi intermedi misurabili per poter verificare l’effettivo avanzamento del processo.

3. Allocare le risorse finanziare e individuare il team 

Nell’ambito del processo di pianificazione, l’identificazione delle risorse e le fonti di finanziamento sono elementi cruciali. Potranno essere necessari nuovi strumenti software che richiederanno, oltre ad un investimento in termini finanziari, anche un impegno in termini di formazione. Ad esempio, si pensi all’implementazione di un nuovo software gestionale, sarà necessario prevedere delle sessioni formative per il personale che andrà ad utilizzare il nuovo software senza che ciò blocchi le normali attività aziendali.

4. Comunicare efficacemente

Identificare, pianificare, integrare ed eseguire un buon piano di gestione dei cambiamenti dipende da una comunicazione efficace. All’interno dell’impresa alcuni team sono già costituiti, il cambiamento può portare uno scombussolamento dei ruoli e delle mansioni e richiedere la formazione di nuovi gruppi di lavoro. Si dovrà far in modo di preparare i collaboratori in modo tale che il cambiamento non generi frustrazioni e incompresioni.

5. Gestire la resistenza,  i rischi di bilancio e riconoscere i meriti del team

Di fronte ad ogni cambiamento è fisiologico incontrare delle resistenze da processo di cambiamentoparte del personale e anche da parte dei vertici aziendali. Il cambiamento spaventa, da sempre si accompagna a nuove opportunità ma, d’altro canto, anche a insicurezza. La resistenza va superata cercando di anticipare il rischio ed essendo pronti ad affrontare eventuali eventi negativi che possano generarsi. Infine, il team, concluso il processo, deve vedersi riconosciuto i propri meriti in modo tale che i prossimi cambiamenti vengano accolti con meno resistenze e più entusiasmo.

 

Change Management Process – L’articolato percorso verso il cambiamento

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Un’organizzazione rigida delle funzioni aziendali si è rivelata essere spesso fallimentare. Operare un cambiamento, in molti casi, non è però una scelta, sono le circostanze ad imporlo. In altri contesti si tratta invece di un cambiamento programmato al fine di incoraggiare la crescita aziendale e il miglioramento. In entrambi i casi, sembra, però, che la scelta di cambiare non sia effettivamente una scelta libera, ma un passo obbligato per la sopravvivenza o il successo dell’impresa.

Sconvolgere un sistema collaudato di gestione e avventurarsi nelle acque agitate dell’innovazione non è di sicuro agevole. Bisogna progettare il processo di trasformazione tenendo conto che spesso  cambiamenti rilevanti hanno un tempo di attuazione fisiologico, che avviene in maniera lenta e programmata.

Generalmente, quando il management propone dei cambiamenti in azienda, questi ultimi non vengono accolti con entusiasmo né dai vertici aziendali né dal personale. Il timore della proprietà è quello di dover trovare fondi per finanziare le innovazioni, che siano di processo, prodotto o organizzative. Per quanto riguarda il personale, i cambiamenti più temuti sono di tipo organizzativo o legati alle innovazioni tecnologiche.

Per alcuni collaboratori dover acquisire nuove conoscenze, ad esempio l’utilizzo di nuovi software, o ritrovarsi in nuove formazioni lavorative  dovendo ricominciare da zero a lavorare sull’affiatamento del team sono motivi di rimostranze. Il management in questi casi dovrà essere in grado di dimostrare la validità che il processo di cambiamento apporterà in azienda, evidenziandone i benefici ma senza nascondere che il percorso di cambiamento non sarà immediato e richiederà impegno da parte di tutti i livelli aziendali.

Il Change management process

L’approccio alla gestione del processo di trasformazione, tendenzialmente, si sostanzia attraverso la pianificazione piuttosto che come reazione alla sfida che un cambiamento organizzativo rappresenta.

La gestione dei cambiamenti si è evoluta negli ultimi anni  attraverso veri e propri modelli, al fine di ammorbidire l’impatto della modifica di processi e piani di gestione sulle organizzazioni.

I modelli di gestione dei cambiamenti sono stati sviluppati in base alla ricerca e alle esperienze maturate nei processi di gestione del cambiamento. La maggior parte di questi modelli permettono di sviluppare processi di trasformazione che possono essere applicati sia all’organizzazione aziendale sia alla crescita personale dell’individuo.

Affinché un modello di gestione del cambiamento sia efficace, deve avvalersi di idonei strumenti di supporto. Tali strumenti vengono sviluppati generalmente all’interno del team di gestione e dagli stakeholder coinvolti nel processo.

Generalmente è necessario sviluppare una roadmap del processo, riuscire a valutare l’avanzamento a fasi intermedie attraverso misurazioni ed analisi, prevedere percorsi di miglioramento futuro.

Non esiste una soluzione ”giusta”, un modello perfetto di gestione del cambiamento che possa essere perfetto per ogni tipologia di processo ma con la ricerca, l’esplorazione e la pianificazione delle risorse, è possibile strutturare una strategia di gestione ad hoc per ogni impresa.
In un prossimo articolo vedremo quali sono gli step essenziali per strutturare con successo un processo di cambiamento.

Business model canvas: lo strumento di pianificazione essenziale per la tua startup

business model canvas

Nel ventaglio di opzioni disponibili da valutare nelle scelta del proprio modello gestionale, il business model canvas rappresenta uno tra gli strumenti più utilizzati ed efficaci scelti dalle aziende innovative.

In un precedente articolo, abbiamo imparato a conoscere il business model canvas, quale strumento strategico molto utile per organizzare l’attività aziendale, in modo visuale, veloce e intuitivo. Esso infatti permette di rappresentare graficamente, mediante blocchi funzionali, gli obiettivi primari dell’azienda, individuare i problemi di rilievo, predisporre le strategie di marketing e avere tutto sotto controllo in un colpo d’occhio.

L’utilizzo di uno strumento visuale nell’organizzazione aziendale favorisce l’innovazione. Pianificare la strategia attraverso il business model canvas consente di trasformare gli elementi e le funzioni vitali dell’impresa in punti focali, permettendo così di individuare nell’immediato l’eventuale necessità di un cambio di rotta e di capire cosa ha dato origine ai problemi riscontrati.

Uno strumento grafico permette di individuare la forza attuale dell’impresa e stimare dove potrà arrivare in un futuro, nonché il percorso necessario per raggiungere il proprio obiettivo.

Il business model canvas rende possibile l’innovazione in quanto permette di passare dalla fase ”in teoria” alla fase di realizzazione e pianificazione, individuando i punti di forza e di debolezza dell’impresa e le relazioni tra le diverse componenti aziendali.

Quali sono i maggiori vantaggi derivanti dall’utilizzo del business model canvas?

  • Velocità e focalizzazione della value proposition. Lo strumento consente  il modello di business in modo grafico e intuitivo, accorciando notevolmente i tempi di redazione e di esposizione. Il suo schema a blocchi consente la focalizzazione dell’attenzione sugli elementi essenziali e soprattutto sulla value proposition, tenendola sempre fissa al centro dell’attenzione. In questo modo non c’è possibilità di allontanarsi dagli obiettivi aziendali ed possibile individuare nell’immediato eventuali deficit funzionali, di risorse o di canali di sbocco.

  • Efficacia e leggerezza. Per una startup dimostrare il proprio potenziale innovativo ed evidenziare in modo efficace i punti su cui far leva è fondamentale per ottenere i finanziamenti necessari al suo sviluppo. Avvalendosi di un business model canvas, la presentazione aziendale diviene più leggera e dinamica e l’attenzione degli investitori viene catalizzata sui punti di forza dell’impresa, senza annoiarli in lunghe esposizioni che rischiano solo di disperdere l’informazione e l’interesse dei finanziatori.
  • Scenari alternativi. Nella definizione del proprio modello di business il brainstorming porta ad un flusso  intensivo di proposte ed idee, attraverso lo strumento grafico rappresentato dal business model canvas è possibile  fissare velocemente ed efficacemente gli interventi dei partecipanti e definendoli nel dettaglio per ogni singolo blocco funzionale. Si avrà pertanto una visione di insieme dei componenti strategici e delle ipotesi attuative permettendo di individuare le soluzioni migliori e di apportare immediatamente le modifiche necessarie avendo a disposizione diversi scenari completi.

Antifragile: la capacità di reagire agli eventi negativi e uscirne rafforzati

antifragile superare gli ostacoli

antifragile superare gli ostacoli

Prevedere le crisi finanziarie e dei mercati, paradossalmente, non è il miglior modo per affrontarle e superarle. E’ necessario costruire dei sistemi che possano resistere agli impatti negativi permettendo alle imprese di uscirne rafforzate. Evitare di commettere errori? Sarebbe idilliaco ma gli errori si commettono ed è fondamentale imparare la lezione e crescere.

”In principio era il caos”…
Dall’origine del mondo abbiamo imparato che il disordine è fonte di vita, scoperte e innovazioni. Un mondo, in senso economico e non, troppo regolamentato e eccessivamente controllato è stagnante, immobile e in quanto inelastico più a rischio nel momento in cui si incorra in situazioni di crisi.

Cosa significa ”antifragile”?

Il termine ”antifragile”, coniato dal matematico, filosofo e saggista Nassim Nicholas Taleb, è stato creato per definire l’esatto opposto di ”fragile”. Esistono altri termini che si potrebbero utilizzare per definire lo stesso concetto, così sembrerebbe…

In realtà antifragile sta ad indicare un qualcosa in più rispetto a ciò che definiscono altri termini quali ad esempio robusto, resistente, infrangibile. Questi ultimi termini stanno ad indicare la proprietà di resistere a eventi dannosi, la facoltà di reggere ai colpi e alle crisi. Essere antifragile permette non solo di ”sopravvivere” agli shock e attacchi esterni ma addirittura uscirne migliorati.

L’antifragilità pertanto va a definire tutte quegli oggetti, situazioni, sistemi e imprese che riescono a beneficiare di elementi che generalmente vengono visti come eventi e fattori negativi.

Una struttura organizzativa all’interno di un’impresa che riesce a trarre beneficio dall’aleatorietà, dagli eventi improvvisi e dal caos riesce a fare dell’incertezza un punto di forza in un sistema economico dove la maggior parte degli operatori è avverso al rischio e cerca di lottare contro la volatilità del mercato anziché sfruttarla.

Strutture complesse e fortemente regolamentate, che siano i sistemi economici e/o politici e al loro interno le imprese, diminuiscono la loro forza e resilienza all’aumentare delle regole imposte dall’alto. Ogni intervento esterno volto a infoltire la regolamentazione per gestire l’imprevisto, porta all’introduzione di nuove regole che sperano di  sistemare le conseguenze inaspettate generate dall’evento inatteso, determinando un effetto domino di situazioni non programmate a cui far fronte.

In alcuni casi si dovrebbe permettere ai sistemi di riequilibrarsi secondo un ordine naturale delle cose.

Il pensiero di Taleb, applicato in contesti che spaziano dalla gestione d’impresa all’economia passando per la società, definisce il  comportamento ”fragile” produttivo di interventi  artificiali che apportano vantaggi irrisori e numerosi effetti collaterali, impercettibili ma potenzialmente distruttivi.

Per rendere il concetto più fluido, facciamo un esempio rapportato alla vita quotidiana. Curare un raffreddore con un’aspirina può apportare un beneficio immediato e visibile, l’aspirina però è potenzialmente foriera di numerosi effetti collaterali che qualora si presentassero annullerebbero del tutto il beneficio ottenuto dalla sua assunzione causando altri problemi che necessiterebbero un ulteriore intervento medico. Permettere al corpo di recuperare in modo naturale secondo i suoi tempi avrebbe evitato di incorrere in tali inconvenienti. Così come nell’esempio, la volontà di ”riparare” con interventi esterni e macchinosi il sistema impresa, finisce col causarne la rottura.

Gli interventi dall’alto, risultano avere un impatto negativo sul sistema economico che per essere antifragile deve paradossalmente essere composto da unità potenzialmente fragili. Se l’impresa non è in grado di rigenerarsi deve poter fallire, dando un segnale di ciò che non funziona.

I salvataggi statali innescano un circolo vizioso tenendo in vita quelle imprese, troppo grandi per poter fallire per i danni che causerebbero sull’occupazione, ma che in realtà assorbono fondi pubblici non essendo stati in grado di autogestirsi e che ricadono sulla collettività.

 

 

Struttura organizzativa: adeguarla al proprio business è fondamentale

schema di struttura organizzativa

organizzazione aziendale

La struttura organizzativa regge le fondamenta dell’impresa, è vitale che sia coerente con il proprio business.

Nell’ambito dell’organizzazione aziendale la struttura organizzativa viene considerata come qualcosa di assolutamente non passibile di modifiche e revisioni, di conseguenza, si tende a non metterla in discussione. In realtà, la struttura organizzativa nasce con l’impresa ed è pensata per durare nel tempo, ma… questo non implica che, qualora l’innovazione e l’evoluzione dell’impresa richieda degli interventi, questi non possano essere realizzati.

Ovviamente, se l’impresa ai suoi albori avesse optato per una struttura organizzativa flessibile i costi di conversione sarebbero stati meno incidenti sul bilancio aziendale.

Modificare una struttura organizzativa non è semplice, ci sono però modifiche e modifiche…

Pensiamo ad esempio ad una squadra di calcio, ad ogni partita lo schema di gioco può essere cambiato, adattandosi agli avversari da affrontare oppure in base al livello di forma dei calciatori, questi sono interventi possibili, ciò che non si può fare è smantellare la squadra e sostituirla con una nuova, i membri vanno ”allenati” e portati ad un livello tale da affrontare e, possibilmente, vincere il campionato.

Per un’impresa vale lo stesso discorso, in relazione ai competitors con cui deve confrontarsi o alle esigenze del proprio team, la struttura organizzativa deve ”flettersi” alle regole del mercato con la massima elasticità.


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Si possono adottare diverse forme di struttura organizzativa, più o meno idonee per un’impresa, a seconda delle caratteristiche che la contraddistinguono.

Generalmente, quando si parla di struttura organizzativa si considerano tre tipologie principali:

  1. Struttura funzionale
  2. Struttura divisionale
  3. Struttura a matrice.

La prima è quella più comune, prevede la suddivisione dell’azienda in aree struttura organizzativafunzionali, nelle quali si svolgono attività omogenee, come ad esempio l’area amministrativa o l’area tecnica.

Questa suddivisione consente un altro grado di specializzazione all’interno delle aree, però, incide negativamente sul coordinamento complessivo, le aree tendono infatti ad operare come se fossero tante piccole aziende e non un ingranaggio di un meccanismo più grande, l’impresa.

Una struttura di questo tipo può funzionare in mercati omogenei, nei quali l’efficienza è un fattore molto rilevante per raggiungere un vantaggio competitivo.

Nella struttura divisionale, la ”ripartizione” interna avviene in relazione alle linee di prodotto, ad esempio,  oppure in base ai mercati serviti.

L’azienda è frazionata in più divisioni che al loro interno assumono una struttura funzionale autonoma e lasciano alla direzione centrale solo alcune funzioni generali e condivise tra tutte le divisioni. Questo tipo di struttura incentiva le diverse divisioni a una sana competizione e ciò garantisce nel complesso struttura organizzativaperformance migliori. Come per le aziende strutturate a in modo funzionale, è minato il coordinamento e la sinergia tra le divisioni.

La struttura a matrice è un punto di  incontro tra la  struttura funzionale e quella divisionale. 

La struttura è di tipo orizzontale, vi sono product manager o project manager che seguono progetti e aree di business ”usufruendo” delle diverse funzioni aziendali. In questo modo si riesce a unire in un modello organizzativo i due vantaggi dei precedenti: specializzazione e incentivi interni per performance migliori.

Non esiste una formula magica che risolve ogni problema aziendale, non c’è una struttura organizzativa che è migliore delle altre, è sempre necessario analizzare i bisogni aziendali e trovare la soluzione più adatta alla  propria impresa.

 

Il (mancato) coraggio di innovare: il caso Kodak

innovare, macchina fotografica vecchio tipo Kodak

La flessibilità organizzativa è al servizio dell’innovazione, il mercato non perdona le aziende che non fanno proprio questo dogma. E’ necessario avere il coraggio di innovare.

 

”… E debbasi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversari, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità delli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza. Donde nasce che qualunque volta quelli che sono nimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente, e quelli altri defendano tepidamente; in modo che insieme con loro si periclita.”  (N.Machiavelli)

Innovare fa paura. Stravolgere l’organizzazione esistente all’interno dell’azienda per lanciarsi in nuovi mercati è una sfida che non tutte le imprese si sentono di affrontare, purtroppo, però, per la vita delle aziende chiudere le porte in faccia all’innovazione significa fallimento. Solo l’innovazione, infatti, può garantire un vantaggio competitivo, duraturo nel tempo, e mantenere in vita  profittabilmente l’azienda.

Per innovare è necessario avere coraggio, il coraggio che è mancato a Kodak è stato l’inizio della fine per il colosso dei rullini. I bambini rullini kodak coraggio di innovaredegli anni ’80, ricorderanno il famoso ”ciribiribì kodak” dello spot televisivo che pubblicizzava i prodotti di punta, pellicole e carta fotografica, dell’azienda.

Kodak, un’azienda che da più di cent’anni lavorava nel mercato delle pellicole con un fatturato vertiginoso, era riuscita a rendere la fotografia alla portata di tutti, era entrata  nelle case e nei cuori dei propri clienti permettendogli di immortalare i loro momenti più belli. Kodak fu travolta dall’evoluzione tecnologica dell’era digitale, i vertici aziendali non furono in grado di riconoscere la portata del fenomeno e quando un progettista del proprio team propose il prototipo di una macchina fotografica digitale l’idea venne bocciata. La risposta di Kodak fu: “Chi vorrà mai guardare le sue foto sullo schermo di una tv?”.

Un grosso errore che le è costato l’uscita dal mercato con l’avvio dell’amministrazione controllata nel 2012. Kodak, il colosso della pellicola, si è dimostrata sorda all’innovazione, non ha ascoltato le idee dei propri collaboratori e si è chiusa in una ostinazione che l’ha portata al fallimento. Kodak non ha capito che il suo business era fatto di persone e non di pellicole…avrebbe potuto continuare a vivere come azienda e fatturare se solo avesse intuito che avrebbe tranquillamente potuto continuare a catturare le emozioni delle persone anche senza l’ausilio di un prodotto ormai superato.

 

Come evitare di commettere gli errori che sono stati fatali a Kodak?

  1. L’organizzazione aziendale deve assecondare l’idea innovativa, anticipare il mercato quando possibile, e l’ingegnere che propose il prodotto  a Kodak lo aveva fatto, era in netto anticipo rispetto alla concorrenza…
  2. Avere il coraggio di cambiare e combattere le opposizioni che puntualmente ci sono quando si cerca di innovare.
  3. Il Management non deve essere cieco e sordo alle proposte del team.
  4. L’organizzazione aziendale deve essere in grado di gestire la creatività e l’innovazione e di guardare a questo processo in merito a ritorni economici nel lungo periodo.
  5. Tenere sotto controllo la propria avversione al rischio, il noto detto recita ”chi non risica non rosica” …niente di più vero, sicuramente è necessario valutare il rischio e il costo-opportunità, senza rischiare però è impossibile innovare.

 

 

 

 

Job to be Done: cosa vendi davvero?

Scopri il job to be done del tuo prodotto evitando così di  rimanere chiuso nella tua value proposition. 

Da bambini, ci siamo tutti soffermati a guardare il cielo e a cercare di dare una forma alle nuvole. Con gli amici, nello stesso momento e nella medesima angolazione ognuno scorgeva forme diverse, eppure, si trattava della stessa nuvola. A volte accade la stessa cosa anche con  gli utilizzi di un bene. Una materia prima che si presta bene all’esempio è il legno, il musicista guardando le venature particolari immaginerà un violino dall’aspetto elegante, il falegname immaginerà gli intarsi possibili di un mobile, altri vedranno solo un ciocco di legno da utilizzare per riscaldarsi.

Chi mette in vendita il pezzo di legno, cosa sta vendendo davvero? Un violino? Un mobile o semplicemente un pezzo di legna da ardere? Il prodotto è il medesimo, ad essere diversi sono i probabili clienti, con i loro bisogni da soddisfare e le proprie esigenze peculiari, pertanto, diverse per ognuno. Ogni possibile cliente non si limita ad utilizzare i prodotti così come gli vengono presentati, è vero anche che alcuni prodotti sono pensati e destinati per un uso specifico e in quei casi è raro che possano essere utilizzati in modo alternativo ma anche con utilizzo destinato le diverse funzionalità e caratteristiche spingono il cliente a scegliere un prodotto anziché un altro.

In passato, quando c’era da impostare una campagna marketing si enfatizzava la qualità del prodotto, si mirava al cliente in modo tale da attrarlo con il rapporto qualità-prezzo, oggi è cambiato anche il modo di fare pubblicità e il classico approccio non porta più a grandi risultati. Nel pubblicizzare una storica bibita gassata, far leva sulla qualità del prodotto avrebbe poco senso… inserendola invece in un contesto pensato per un target specifico, che sia il falò sulla spiaggia, ad esempio, se si vuole puntare ai giovani tra i 16 e 20 anni la pubblicità raggiunge il suo scopo perché centra l’utilizzo che il cliente ha in mente.

Il prodotto nelle mani del cliente

La domanda da porsi è dunque: i miei clienti tipo come intendono utilizzare il mio prodotto? In base alla risposta è necessario agire di conseguenza, a livello di progettazione e pubblicità. Il processo che porta al cambiamento, alla trasformazione, da come i produttori avevano progettato l’utilizzo del prodotto e l’effettivo utilizzo dello stesso da parte dei clienti in relazione a specifici problemi da risolvere o bisogni da soddisfare è ciò che Clayton Christensen ha definito come  teoria del ”job to be done”. Con questo termine si identificano tutte le azioni che le persone cercano di compiere nella loro vita, compiti da portare a compimento e problemi a cui trovare una soluzione.

Con il  job to be done, appare chiaro che un’azienda debba chiedersi nel momento in cui progetta il lancio di un prodotto quali potrebbero essere i motivi che spingerebbero il cliente ad acquistarlo. Il prodotto deve riuscire a soddisfare esigenze, anche molto diverse da quelle che in origine erano state pensate dal produttore pertanto è necessario non fossilizzarsi nella propria value proposition che per gusti e esigenze potrebbe non soddisfare il target di riferimento.

Non è detto che il successo di un prodotto sia dovuto al fatto che sia il migliore sul mercato o abbia il costo più basso, spesso è il prodotto più utile e comodo. I frullati di McDonald’s ad esempio, non sono di sicuro i più buoni al mondo ma rispetto alla concorrenza il loro successo fu determinato dal packaging, sono facili e comodi da trasportare in auto.

 

 

 

L’importanza di una comunicazione efficace in azienda

La rilevanza di una comunicazione efficace all’ interno dell’azienda  e il suo impatto sull’organizzazione aziendale

E’ facile intuire che la condivisione di informazioni, in un contesto quale quello aziendale, è alla base di un corretto e funzionale svolgimento del lavoro quotidiano. Le informazioni, necessarie alla vita dell’impresa, vengono veicolate attraverso la comunicazione, che a livello semantico vuol dire infatti ”far conoscere”. Cosa accade però se la comunicazione non avviene nel modo appropriato? Una comunicazione sbagliata oltre a non permettere il normale flusso di informazioni e generare errori rischia di compromettere i rapporti tra colleghi, e tra dipendenti e manager.

A livello aziendale la comunicazione ha come obiettivo la promozione di una buona organizzazione, essenziale per ottenere una coesione ottimale tra i membri del team. Esistono due tipologie di comunicazione interna, e bisogna comprendere quale formula funzioni meglio per la singola impresa. Nella comunicazione aziendale, distinguiamo l’approccio Top-Down e l’approccio Bottom-Up.

Nella prima tipologia, l’approccio Top-Down, il flusso informativo parte dall’alto, dai vertici  aziendali e si dirama verso il basso raggiungendo i dipendenti. Questa  tipologia di comunicazione viene attuata tramite una rete Intranet o riunioni con i dipendenti. Nelle piccole e medie imprese, che caratterizzano il tessuto imprenditoriale italiano, la comunicazione interna avviene soprattutto faccia a faccia, in questi casi giocano un ruolo cruciale l’espressività verbale e non verbale e l’empatica verso i nostri interlocutori. Tramite la comunicazione faccia a faccia si consolidano i rapporti di stima reciproca  e salda il senso di appartenenza  e fedeltà aziendale, pertanto è intuibile l’impatto che espressioni sbagliate possano determinare sul clima lavorativo.

L’approccio Bottom-Up, invece, prevede che la comunicazione avvenga all’inverso, ossia dal basso verso l’alto. Questa tipologia di comunicazione si realizza attraverso questionari, colloqui individuali  e mediante l’elaborazione di procedure che devono essere applicate da tutti i dipendenti. Per ottenere tutti i benefici possibili da questa tipologia di comunicazione aziendale, alla base deve sussistere un rapporto di fiducia con i propri dipendenti che riusciranno così ad avere contezza dell’importanza che riveste la comunicazione aziendale.

Seppur ognuno ha un ruolo ben preciso, un noto detto recita: tutti sono importanti, nessuno è indispensabile. Che ci piaccia o no è esattamente così che deve essere all’interno di un’azienda affinché tutto possa filare liscio. La condivisione di informazioni, e l’applicazione delle procedure è necessaria perché è impensabile che l’attività possa fermarsi o subire rallentamenti quando un dipendente è in malattia, in  ferie e maternità. Ognuno all’interno dell’azienda deve essere in grado di reperire le informazioni che gli necessitano al fine di portare avanti le normali attività aziendali.

Come per la maggior parte delle cose, non esiste una ricetta perfetta ma alla base di un risultato ottimale a livello di comunicazione, l’ingrediente che non può mancare è l’unione, la coesione tra tutti i membri  delle  diverse aree aziendali.

 

Lavoro agile: smart working amico della flessibilità

Un congruo compromesso tra lavoro e vita privata esiste? Si, lo smart working!

Le nuove tecnologie, già a partire dagli anni ’70, hanno consentito e favorito lo sviluppo del telelavoro, inteso come prestazione lavorativa fornita da un luogo diverso dalla sede aziendale, di norma corrispondente al domicilio del lavoratore. Da un po’ di anni a questa parte una nuova terminologia sta prendendo piede: lo smart working.  Di cosa si tratta in realtà? Coincide forse con l’ormai noto telelavoro e ad essere diverso è solo il nome che gli si da? Non esattamente…

Lo smart working rappresenta l’evoluzione concettuale del telelavoro. Recentemente regolamentato, lo smart working nasce con lo scopo di incrementare la competitività e conciliare in modo ottimale vita privata  e lavorativa del dipendente. Si realizza tramite accordo contrattuale tra le parti che ne definiscono modi e tempi di attuazione, il monte ore necessario e l’orario di lavoro. A differenza del telelavoro che prevede quale sede dove effettuare la prestazione lavorativa l’abitazione del lavoratore, lo smart working non prevede una postazione fissa. Il lavoratore può svolgere le sue mansioni ovunque egli voglia entro i limiti orari della sua giornata lavorativa così come concordato tra le parti e nel rispetto dei dettami dei contratti collettivi nazionali.

La regolamentazione dello smart working ha inoltre  introdotto il ”diritto alla disconnessione”, l’accordo scritto tra le parti deve prevedere infatti anche i tempi di riposo del lavoratore, e la struttura organizzativa e tecnica deve essere predisposta affinché possa permettere al lavoratore di disconnettersi in sicurezza. 

Per quanto riguarda il corrispettivo, è previsto che  lo smart worker abbia diritto  allo stesso trattamento economico dei lavoratori che prestano il proprio lavoro in sede.  Per i primi, però, svolgendo la loro prestazione al di fuori dei locali aziendali le modalità di esecuzione delle mansioni sono diverse come diverse sono le sanzioni disciplinari in caso di condotte differenti da quelle previste per ogni categoria di lavoratore.

 

Seppur per l’azienda lo smart worker implica l’investimento in strumenti per la comunicazione e la collaborazione, oltre a uno stipendio pari a quello percepito dai lavoratori in sede, sussistono delle utilità non indifferenti. L’azienda infatti riesce  a ridurre i costi dei luoghi fisici proporzionalmente al numero di dipendenti che lavorano in formula smart working. Inoltre, da alcune indagini effettuate mediamente gli smart workers tendono a lavorare più ore rispetto ai colleghi in sede. Più che portarsi il lavoro a casa, gli smart workers portano la casa a lavoro e questo ha un doppio effetto. Se il lavorare da casa li spinge a lavorare di più per dimostrare che riescono a lavorare bene e di meglio rispetto ai lavoratori in sede, il loro maggior sforzo è premiato dall’essere a casa, ma non solo, possono infatti lavorare seduti su una panchina in un parco, in un internet cafè  o dove meglio aggrada al lavoratore ottenendo così un notevole incremento della qualità della vita e non dimentichiamo che evitano in questo modo l’ansia, di Fantozziana memoria, di non riuscire a timbrare il cartellino in tempo e non perdere il tram o la metro affollatissima!

Intelligenza Emotiva: requisito essenziale per il manager di successo

Perché l’intelligenza emotiva è più importante del QI

” La leadership implica la capacità di stimolare l’immaginazione delle persone e di ispirarle così da spingerle nella direzione desiderata. Per motivare e guidare gli altri, ci vuole qualcosa di più del semplice potere.” (Daniel Goleman)

Negli ultimi decenni, abbiamo assistito all’affermarsi di un nuovo metodo di valutazione dell’intelligenza delle persone. Se in passato il test del quoziente intellettivo era l’unico sistema standardizzato per misurarla, oggi si sta affermando una nuova forma di intelligenza che il test del QI non è in grado di valutare: l’intelligenza emotiva (QE).

QE vs QI: le differenze

QI indica il quoziente intellettivo che viene calcolato attraverso appositi test ed esprime l’intelligenza di una persona, tenendo conto della sua età anagrafica e mentale. Ad esempio se un bambino di 7 anni, risponde al test come la maggioranza dei suoi coetanei avrà un punteggio che lo colloca tra coloro con QI nella media. Se invece, risponde al test come mediamente risponderebbe un bambino di 10, il suo quoziente intellettivo sarà più alto rispetto alla media e ne deriva che il bambino è dotato di intelligenza superiore. A livello empirico sembra che chi ha un QI più alto avrà una carriera accademica brillante e sarà in grado di guadagnare di più rispetto a chi ha un QI più basso.

Con QE si indica l’intelligenza emotiva, che consiste  nella capacità degli individui di captare, controllare e esprimere emozioni. Avere un alto QE non implica avere anche un alto QI e viceversa, in questi casi quale è importante privilegiare per una valutazione dell’intelligenza della persona? A livello nozionistico, per quanto riguarda conoscenze strettamente tecniche e accademiche, il QI batte il QE nella vita pratica e soprattutto in ambito professionale chi presenta una maggiore intelligenza emotiva riesce ad ottenere migliori risultati. La spiegazione è da ricercarsi nella maggiore consapevolezza che tali persone hanno di se stessi e per tanto hanno maggiore controllo sulle proprie azioni, presentano maggiore motivazione e empatia verso gli altri. ììSono più consapevoli di se stessi, più in grado di regolare le loro azioni, sono in grado di gestire meglio la responsabilità, sono motivati e hanno empatia per gli altri.

intelligenza emozionale

Al manager del passato non erano richieste abilità a livello emotivo, era sufficiente che elaborasse le strategie, impartisse ordini e si assicurasse che venissero eseguiti. Tra i test che il manager sosteneva per divenire tale affrontava anche quelli basati sul QI, alla ricerca di relazioni logiche e conti da far tornare. Oggi non basta più, il lavoratore è innanzitutto persona, e le persone sono fatte di emozioni. Se il manager non riesce a leggerle e comprenderle resterà al vertice di un circuito di cui vede solo la copertura esterna ma non riesce ad accedervi internamente e diventarne parte. Attualmente le aziende, in buona parte, vedono ancora al comando ”analfabeti emozionali”, che non riescono a cogliere l’importanza delle relazioni, emozioni e empatia all’interno dell’azienda, al fine di lavorare in armonia e con maggio rendimento.